L’uomo è un animale sociale.
Lo affermava già Aristotele, nel IV secolo a.c. Nel momento in cui, nel corso dell’evoluzione, si è sviluppata nel nostro cervello la neocorteccia, e si è affermata la consapevolezza di sè come individuo diverso da ogni altro, è nata l’esigenza di socialità, la collaborazione, e la capacità di relazionarsi con gli altri.
Osservando il comportamento dei gemelli nel grembo materno, si è constatato che è già presente interazione addirittura prima della nascita. E sicuramente tutti veniamo al mondo già equipaggiati di ogni competenza necessaria per creare efficacemente relazioni l’uno con l’altro. Le prime interazioni avvengono con la mamma, poi con gli altri adulti e con i volti familiari, e già verso i 2/3 anni ogni individuo è naturalmente attratto verso gli altri bambini, e comincia, magicamente e senza sforzo, a creare amicizie. Ognuno in base alla sua indole, ai condizionamenti già ricevuti, alle esperienze già vissute, chi più timido, chi invece più spavaldo, ma tutti hanno connaturata la capacità di stringere relazioni con i propri simili.
Come ti chiami? Vuoi giocare con me? Fare amicizia è un’esigenza, e la capacità di farlo è innata. Tutti ci ricorderemo che, quando i genitori ci portavano a un pranzo, o in vacanza in un posto nuovo, ci informavamo: ma ci sono altri bambini? Era sufficiente sapere che sì, c’erano: nessuno si poneva il problema di come riuscire a diventare amici. Era ovvio, automatico.
Nel corso della vita, però, spesso qualcosa si inceppa. I rapporti tra umani si fanno più complicati, intervengono le necessità di aderire a ruoli e di rivestire posizioni di riferimento. Le strategie, le scelte su come apparire o presentarci, quello che gli altri si aspettano da noi e mille altre complicazioni si sovrappongono a questa nostra capacità semplice e naturale che avevamo, quando un nome e la voglia di fare qualche cosa insieme erano sufficienti.
Su questa terra siamo in quasi 8 miliardi di individui. Le città sono sempre più affollate. Facciamo la fila per ogni cosa: al ristorante, alla cassa del supermercato, dal medico, negli uffici. Ci lamentiamo di essere in troppi, siamo sempre alla ricerca, ognuno, del suo spazio vitale.
Eppure… La solitudine è un problema sempre più sentito nella nostra società. Quando, e in quale modo la vita si è inghiottita questa nostra competenza nel relazionarci? Perché comunicare, e farlo in modo efficace e nutriente, diventa così difficile? Perché non riusciamo a capirci e a farci capire spesso nemmeno dalle persone più care? Che cosa abbiamo dimenticato? E cosa è cambiato? Certo non il bisogno di entrare in contatto: e l’esplosione dei social e del loro uso e abuso, pur con tutte le storture e le conseguenze deteriori che ne sono derivate, ne sono la prova.
Ma quella capacità che avevamo, dove è finita? In realtà nulla di quello che abbiamo, o che abbiamo avuto, è perso. E’ solo nascosto da qualche parte dentro di noi. Si tratta di ascoltarci, ascoltarlo, ricontattarlo, e metterci in gioco. Magari spogliandoci di qualche convinzione, di qualche pregiudizio, di qualche giudizio. Ma è molto più facile di quanto sembri.