“L’uomo è veramente tale solo quando gioca” (Schiller 1759-1805). Attraverso il gioco infatti, possiamo liberare la mente da condizionamenti esterni, giudizi, pensieri, esprimere emotività e istintività.
Pensiamo all’espressione “mettersi in gioco”. Intendiamo con questo l’uscire da una situazione di stallo, abbandonando atteggiamenti e pregiudizi limitanti. Spostarci dal nostro contesto abituale per porci, in una nostra nuova e totale integrità, in un contesto nuovo, quello in cui vogliamo raggiungere un obiettivo. Quando ci mettiamo in gioco, rinunciamo a frenarci, a ripensarci, a nasconderci, a resistere.
I bambini imparano a socializzare tra di loro attraverso il gioco. Ed è così che nascono le prime amicizie. “Quel bambino è mio amico” sottintende “Ho giocato con lui”.
Osserviamo il comportamento dei bambini dai 4/5 anni in su, quando si incontrano al parco. Senza conoscersi, interagiscono in modo naturale. La prima domanda non è “Vuoi fare amicizia con me?” e nemmeno “Che scuola fai?” o “Che interessi hai?” o “Dove abiti?” (l’equivalente di quel “di cosa ti occupi?” che rappresenta il primo contatto tra adulti, e in base alla cui risposta in pochi istanti ci si costruisce la prima identificazione dell’altro, legata a stereotipi, collocazioni sociali e culturali, etichette, giudizi).
La prima domanda dei bambini che non si conoscono e si incontrano è “vuoi giocare con me?”. E così, senza interporre filtri, comincia l’interazione. Senza maschere, protezioni, atteggiamenti e forzature, le prime relazioni nascono attraverso il gioco. Dal gioco nascono le amicizie. E cioè dal fare cose insieme. Tutto il resto viene dopo.
Vogliamo riportare tra gli adulti la naturalezza e la fluidità dei bambini. Invece di conoscersi (con quel rituale “di cosa ti occupi?” che, declinato nelle sue tante varianti, rappresenta l’avamposto dei contatti tra adulti con tutto il suo carico di giudizio e ansia da presentazione) e poi fare attività insieme, chiederemo di conoscersi attraverso una attività fisica fatta insieme per divertirsi (giocando, insomma), e poi esaminare e osservare ciò che di positivo avviene, e di ricavarne spunto di riflessione.
E inoltre: unire una attività fisica all’aperto al lavoro di counseling aiuta ad alleggerire l’atmosfera, e al tempo stesso permette di osservarsi e osservare gli altri in un contesto più fisico. Osservare il proprio corpo consentendogli libertà nel muoversi, oltre ai propri pensieri, può fornire risposte a cui normalmente non abbiamo accesso.
L’attività fisica condivisa, il counseling e il contesto inusuale permettono alle proprie competenze relazionali, non più protette/imprigionate dai comportamenti ritualizzati, di riemergere, e a ciascuno di noi di ricontattare la propria spontaneità naturale, e sperimentarne l’effetto su noi stessi e sugli altri. Divertendosi, proprio come fanno i bambini, in un’atmosfera piacevole, stimolante, accogliente e non giudicante.